UNA RESIDENZA RICCA DI STORIA

L'origine fiorentina

Ghibellini irriducibili

Una grossa famiglia, anzi una grossa tribù fiorentina, con il bernoccolo per gli affari e la pericolosa propensione a partecipare con troppa foga alle lotte politiche della città del giglio, che li conobbe ghibellini oltranzisti prima, seguaci fedeli dei Medici più tardi.

A Firenze i Sassetti abitavano nel quartiere di San Pietro in Buonconsiglio, e questo almeno dal 1198 quando, in un documento che ratificava un accordo di tregua a reciproca difesa fra tutti gli abitanti della città, figura, in qualità di rappresentante del proprio quartiere, Sassetto di Gentile.

Alla fine del Duecento, anzi del Dugento come si dice in Toscana, maneggiavano già migliaia di fiorini, provenienti dall’esercizio del cambio, dai fitti di numerosi fondaci e case, nonché da estese proprietà agricole. I Sassetti non appartenevano alla nobiltà feudale, ma erano popolani, nell’accezione di appartenenti alla borghesia medio-alta che a quel tempo aveva forza economica e smania di emergere rapidamente. Forse troppo rapidamente. Nel 1261 due Sassetti, Cecco e Ugo di Pepo, vennero eletti consiglieri nel governo ghibellino, così come Gentile e Ugo di Jacopo nel 1266. In questo modo però, al rientro dei guelfi dopo la sconfitta e la morte di Corradino di Svevia (1268), i Sassetti furono tra i primi a comparire nelle liste di proscrizione. Caccia e Jacopo vennero così banditi dalla città. Si trattò comunque di un blando provvedimento in quanto ai due esiliati venne concesso di poter risiedere nel contado. Era solo un avvertimento del quale la famiglia non seppe peraltro far tesoro. Infatti, alla pace tra le due opposte fazioni promossa nel 1280 dal cardinale Latino, ancora Gentile e Jacopo figurano, invero con poca prudenza, tra i firmatari di parte ghibellina. Di conseguenza, quando nel 1311, all’arrivo in Italia dell’imperatore Arrigo VII, i guelfi si vollero garantire dalla minaccia ghibellina all’interno della città, nel decreto di proscrizione cautelativo inclusero inevitabilmente i Sassetti. Ma questa volta venne loro inferto un colpo durissimo: l’esilio colpì infatti ben sedici esponenti della famiglia, in pratica tutti i membri più rappresentativi degli otto rami nei quali essa era articolata. Era l’addio alla terra natia.

Solo sette anni più tardi, nel 1118, in occasione di un provvedimento di clemenza, i condannati poteron rimettere piede a Firenze, non senza aver solennemente promesso di mantenersi nell’avvenire “obbedienti figlioli del Comune”. Ma non tutti gli esuli si avvalsero di questa concessione. Rientrarono solo quattro gruppi e precisamente i figli di Banco di Sassetto, i figli di Federico di Sassetto, quelli di Iacopo di Azzo e quelli di Guccio di Gentile. Questi ultimi, che erano stati i più duramente colpiti, forse per timore di nuove repressioni, preferirono installarsi alle porte della città, alle Selve di Lastra a Signa, una zona nella quale avevano estese proprietà i conti di Gangalandi, guarda caso grande famiglia ghibellina. L’ostracismo dalla vita politica si fece comunque sentire per lungo tempo, sì che per tutto il Trecento i Sassetti non ebbero accesso ad alcuna carica nel governo cittadino. Anzi, nel 1383 il ramo di Banco di Sassetto subì tragicamente tutto il peso dell’ostilità del nuovo gruppo dominante guelfo e della violenza di quel torbido periodo di convulsioni e lotte intestine che seguì alla rivolta dei Ciompi. Pietro di Sassettino infatti, accusato di “guastar chiese, rubar case e sforzar donne”, venne condannato a morte e decapitato il 4 novembre 1383. La sproporzione tra i reati contestati e la severità della pena inflitta, insieme ad alcune frasi della sentenza che parlano di monito ed esempio, danno chiara testimonianza del carattere prettamente politico di quella esecuzione. Questo ramo della famiglia non riuscirà mai più a riprendersi dal colpo subito e scomparirà nel giro di una generazione.

Il banchiere dei Medici

Cominciava invece ad emergere il ramo di Federico di Sassetto, la cui discendenza era destinata a dare alla famiglia lustro e notorietà. Con saggia decisione i maschi di questo ceppo s’imposero di rinunciare ad ogni aspirazione politica per dedicarsi invece alla loro attività di sempre: la mercatura e il cambio. Tenevano “tavola” o, “banco” in mercato Nuovo e viaggiavano per l’Italia e l’Europa secondo la consuetudine dei grandi mercanti, provando in tal modo sempre nuove esperienze. Tra la fine del Trecento e l’inizio del secolo successivo, alcuni fortunati matrimoni fecero stringere ai Sassetti rapporti di parentela con le famiglie più in vista e potenti della città (Strozzi, Pazzi, Adimari, Alberti). Era iniziata un’ascesa sociale pressoché inarrestabile che avrebbe avuto il suo culmine nell’epoca medicea, stagione felice e di indiscusso successo che vide il casato tra i primi al fianco dei signori di Firenze. Autentico protagonista nella storia dei legami tra i Sassetti e i Medici è stato sicuramente Francesco, figlio di Tommaso (del ramo di Federico di Sassetto) e di Betta de’Pazzi. Nato a Firenze il 9 marzo 1420, appenna ventene entrò nel Banco dei Medici, come agente nella prestigiosa agenzia di Ginevra e in soli sei anni ne prese le redini. Raggiunse risultati e successi personali così alti da venir presto nominato collaboratore del direttore generale della gigantesca macchina finanziaria medicea, Giovanni di Cosimo Medici il Vecchio. Ottenuta la promozione, Francesco rientrò nel capoluogo toscano (era il 1459) e quattro anni dopo, alla morte del grande finanziere, prese direttamente il suo posto. Un ufficio che continuò a esercitare ininterrottamente per ben ventisette anni, segno evidente che la fiducia e la stima dei suoi signori non gli vennero mai revocate.

Da parte sua Francesco si dedicava al proprio dovere animato da sicura dedizione e spirito di servizio sincero. Basti pensare che quando la filiale di Lione entrò in crisi, il Sassetti, all’età di 67 anni, non si peritò di mettersi in viaggio per recare il suo personale consiglio e la sua consulenza nella cittadina francese. Il lungo soggiorno all’estero, protrattosi per alcuni mesi, e lo sforzo profuso per scongiurare il fallimento della banca finirono per fiaccarlo. Ne morì poco dopo il suo rientro in Toscana , il 31 marzo 1490. Ai suoi eredi lasciò un ottimo ricordo di sé, un esempio da imitare e un invidiabile patrimonio stimato in 45.000 fiorini investiti in partecipazioni e interessi nelle filiali di Avignone e Ginevra del Banco dei Medici, oltre a 52.000 fiorini in beni immobili. Non è semplice stabilire il valore attuale di tali cifre, ma si può lo stesso avere un attendibile indicazione considerando la spesa di 12.000 fiorini sostenura da Francesco per costruire in Montughi la sfarzosa villa detta “La Pietra”. Un capriccio forse eccessivo e un immobilizzo improduttivo di capitale che peserà poi sulla famiglia, allorché la buona stella girerà altrove.

Oltre che ricco banchiere, Francesco, autentico figlio del Rinascimento, fu uomo dai numerosi interessi culturali. Coltivò l’amicizia con Marsilio Ficino, Luigi Pulci e il Fonzio, raccogliendo nella propria biblioteca migliaia di volumi e una gran quantità di opere rare, manoscritte e miniate. Lo stesso Lorenzo il Magnifico acquistò da lui ben 67 codici mancanti alla sua famosa raccolta. Mentre l’enorme patrimonio accumulato da Francesco durante la vita non gli sopravvisse a lungo, ciò che invece lo ha legato per sempre alla storia di Firenze è stata la sua sensibilità artistica. Una rara dote che lo spinse ad affidare a Domenico Ghirlandaio la decorazione della cappella Sassetti in Santa Trinita. Fu proprio Francesco a concepirne la struttura e dall’intesa stabilitasi tra lui e il Ghirlandaio ha preso forma quel gioiello architettonico e pittorico che ancora impreziosisce la basilica dei monaci vallombrosiani.

Dopo la sua morte, il figlio Cosimo (1463-1527) rimase nel banco dei Medici come condirettore, insieme a Lorenzo Spinelli, delle filiali di Ginevra e Lione dal 1490 al’94. Lo stesso Cosimo, eletto per tre volte gonfaloniere della Repubblica, nel 1515 venne creato conte palatino da papa Leone X (Giovanni de’ Medici) che lo autorizzò ad introdurre nel proprio stemma la palla azzurra dei Medici, con tre gigli d’oro, posta tra i segni L e X, le iniziali del nome del pontefice.

Alla morte di Cosimo iniziò il lento ma inesorabile declino di questo ramo della famiglia. Comparvero le prime difficoltà finanziarie e nel 1545 si rese necessario liberarsi della villa di Montughi, divenuta un peso ingombrante per i bilanci e l’amministrazione di casa. Passerà comunque più di un secolo prima di dar completamente fondo alla ricchezza accumulata da Francesco e dagli altri antenati. Nel frattempo almeno altri due esponenti di questo ramo seppero distinguersi con le loro opere e dar così lustro alla famiglia e alla città intera. Il primo è Carlo di Vincenzo di Tommaso, cavaliere di Malta, che si trovò in quell’isola durante l’assedio turco del 1565 e morì nella difesa del forte di Sant’Elmo il 12 giugno di quello stesso anno.

Ma il personaggio più affascinante, più vivo e intraprendente che questi Sassetti abbiano saputo esprimere è sicuramente Filippo.

Il letterato commerciante di spezie

Filippo nacque a Firenze il 26 settembre 1540 da Giambattista di Teodoro di Francesco e dalla nobile Margherita de’ Gondi. La sua fantasia sarebbe rimasta profondamente colpita dai racconti che il padre faceva, a lui bambino, delle grandi scoperte geografiche che in quei tempi estendevano di anno in anno i confini del mondo conosciuto. L’eco elettrizzante riecheggiato da quelle terre lontane e il fascino del quale era avvolto il mistero di questa nuova avventura umana si fecero infatti strada nella mente del ragazzo il quale, all’inizio, sembrò quasi non avvedersi che il seme del navigatore stava mettendo frutto dentro di lui.

La sua prima ambizione fu infatti quella di diventare un buon letterato. Il padre invece, secondo la tradizione di famiglia, lo avviò all’attività commerciale, alla “mercatura” come si diceva allora, facendogli fare le ossa al servizio di alcuni grandi imprenditori fiorentini.

Raggiunti i 28 anni, Filippo decise però di seguire la propria inclinazione: gettò alle ortiche libri contabili e registri e si iscrisse all’università di Pisa. Per una decina d’anni, ospite del filosofo e amico Francesco Buonamici, ciondolò in quell’ateneo studiando un po’ di tutto, dalla filosofia alle scienze naturali, dalla letteratura alla matematica. Scrisse una Difesa di Dante, un Discorso contro l’Ariosto, La Vita di Francesco Ferrucci e i Commenti alla poetica di Aristotele. Venne anche ammesso nell’Accademia fiorentina e poi in quella degli Alterati, circoli letterari entrambi molto esclusivi.

Prossimo alla soglia dei quarant’anni si accorse di aver combinato ben poco. La sua inquietudine cresceva e così, nel gennaio del 1578, accettò la proposta di curare gli interessi commerciali di alcune ditte del capoluogo toscano operanti nella penisola iberica. Per tre anni fece la spola tra Madrid, Siviglia e Lisbona, città dove era possibile concludere ottimi affari, poiché qui arrivavano i prodotti del Nuovo Mondo e dell’India, tutti molto richiesti in Toscana.

La scintilla scoccò un bel giorno proprio a Lisbona, mentre Filippo osservava il traffico composito e pittoresco del porto, con le navi che attraccavano e ripartivano per lidi lontani, il correre degli scaricatori su e giù dai pontili, l’animazione di bottegai e venditori di mercanzie esotiche che da dietro i banchi gridavano la loro merce. Per non dire del brulichio della gente sui moli: migliaia di persone provenienti da luoghi, razze e culture diverse, ma tutte ugualmente affaccendate a concludere affari. Fu in quel momento che Filippo comprese finalmente quello che sentiva nel cuore, quello che voleva e aveva sempre voluto da quando suo padre gli raccontava delle audaci avventure dei grandi navigatori. Capì che il suo desiderio si chiamava India e che nulla e nessuno lo avrebbero più trattenuto.

Dopo molte trattative con 1a ditta Rovellasco di Genova, gli venne affidato di sovraintendere all’acquisto di sale e pepe e altre spezie sulla costa occidentale dell’India, in Malabar. Il compenso era fissato in mille ducati annui, oltre a una provvigione calcolata intorno ai 1300-1500 ducati. Non proprio una cuccagna, ma Filippo avrebbe accettato qualunque condizione pur di partire.

Salpò da Lisbona ai primi di aprile del 1582 facendo vela verso Goa, ma il pilota della nave sbagliò rotta. Infatti, per superare i monsoni che soffiavano da sud e risalivano la costa africana, la nave doveva allargarsi fino alle coste del Brasile e poi rimontare al traverso fino a doppiare il capo di Buona Speranza. Si ritrovarono invece appena sotto il golfo di Guinea, con la stagione troppo avanzata per insistere nel viaggio.

Non restò che fare dietro-front e tornare a Lisbona dopo cinque lunghi, inutili mesi di navigazione. Un altro, al suo posto, avrebbe probabilmente rinunciato. Filippo invece, nonostante la famiglia da Firenze lo sconsigliasse, tentò nuovamente. L’8 aprile dell’anno seguente, il 1583, ripartì per l’India con la stessa nave e lo stesso pilota. Il viaggio durò sette mesi tra peripezie di ogni tipo, compresi una furiosa tempesta incontrata lungo la costa africana meridionale e l’immancabile scorbuto con relativa moria di marinai. L’8 novembre 1583 il mercantile attraccò nella rada del porto di Coccin. Era l’inizio dell’avventura indiana di Filippo: sarebbe durata cinque anni. Durante sì lungo periodo mantenne sempre i contatti con Firenze, scrivendo ai familiari, agli amici e ai granduchi Francesco e Ferdinando de’Medici. Questo suo epistolario, pubblicato varie volte con il nome di Lettere indiane, è un vero gioiello letterario. Per una volta, a descrivere quelle terre lontane, non è il solito missionario, il mercante o il marinaio semianalfabeta, ma è un uomo colto e istruito, che sa di geografia, astronomia, botanica e filologia, un personaggio pieno di interessi e curiosità, un fiorentino dallo spirito arguto capace di trasmettere ai suoi lettori le medesime impressioni che l’India fu capace di suscitare nel suo animo di avventuroso. Fu anche grazie alle sue lettere che l’Europa ebbe notizie sul sanscrito, l’antica lingua indoeuropea attestata in India a partire dal X secolo avanti Cristo.

Colpito da febbri tropicali, Filippo morì a Goa il I settembre 1588 con una grande nostalgia per non aver potuto rivedere la sua Firenze e il rammarico di non aver realizzato un altro sogno che accarezzava da tempo: tornare a casa attraverso le Molucche, le Filippine, il Pacifico e l’Atlantico.

L'arrivo a Pisa: nuovi traffici, battaglie finte e guerre vere

Ottavio Sassetti

Intanto cominciava a dar segni di vita e d’irrequietezza un altro ramo dei Sassetti, quello che faceva capo a Piero di Guido di Guccio di Gentile. Da più di due secoli i suoi discendenti vivevano in volontario e dorato letargo sulle colline sopra Lastra a Signa, alle porte di Firenze.

Fra questi, Matteo di Niccolò di Antonio di Domenico (1505-1564), aveva sempre più spesso la necessità di spostarsi a Pisa e Livorno per seguire i propri interessi di lavoro. Come altri fiorentini contemporanei inseguiva infatti il baricentro dei traffici e dei commerci toscani, spostatosi dal capoluogo alla costa per le iniziative granducali attivate nel tentativo di agganciare le nuove correnti di traffico che dal Mediterraneo si spostavano verso l’Atlantico. Dopo aver fatto per alcuni anni la spola tra Firenze e il litorale, Matteo pensò che fosse più pratico stabilirsi a Pisa. Così fece e già nel 1536 lo si trova citato nei documenti come fiorentino Pisis existens. Il trasloco definitivo all’ombra della Torre pendente avvenne comunque verso la metà del secolo. I suoi figli, Santi, Pierantonio, Niccolò e Caterina furono gli ultimi fiorentini di questo ramo della famiglia: nacquero infatti tutti alle Selve prima dell’esodo. Merita attenzione l’attività di Niccolò, morto a Pisa nel 1598 e sepolto nel chiostro della chiesa di Santa Maria del Carmine, anche se in verità la sua carriera si svolse soprattutto a Livorno. E infatti nella città labronica che esercitò con successo la mercatura e ricoprì per quattro volte l’ufficio di gonfaloniere. Una rapida ascesa, del resto facilitata dal chiamarsi Sassetti e da1 fatto, certo non secondario, di essere fiorentino, una qualità molto apprezzata dai Medici i quali, per chiari motivi di strategia politica, nei posti chiave delle varie città del granducato, preferivano nominare propri concittadini.

In una decina d’anni Niccolò bruciò le tappe: depositario nel 1578, stimatore nell’81, camarlingo (addetto all’amministrazione del tesoro granducale) nell’84 e nell’87, anziano nel’90 e finalmente gonfaloniere nel 1591, nel’92, ’96 e ’97. Il suo unico figlio, Matteo, avuto da Magherita Ciurini, seguì per un certo tempo le orme paterne. Egli figura come membro del Consiglio Generale della terra di Livorno nel 1599 e poi nella lista dei cento cittadini della comunità labronica scelti dal granduca perché tra essi potessero venir squittinati, cioè eletti, i gonfalonieri e gli anziani della città.

Finalmente, ad essere creati cittadini pisani, il 25 giugno 1585, furono Pierantonio (1533-1589) e Santi (1535-1588). Pisano fin dalla nascita fu invece Ottavio, figlio di Santi Sassetti e Maria Dorotea Simonelli. Venne al mondo il 28 ottobre 1580 nel quartiere di Kinzica fu battezzato in San Lorenzo. Rimase purtroppo orfano di padre a soli nove anni di età. Si occupò allora di lui lo zio Niccolò che, appena il ragazzo si fece adolescente, lo avviò, manco a dirlo, alla mercatura.

Ottavio si applicava con passione nell’arte dei suoi avi. Aveva appena compiuto diciotto anni che già era a Cagliari a combinar affari e gestire importanti interessi. In effetti doveva essete bravino se nel 1604 Marcantonio Quarantotti, ricco patrizio pisano che possedeva grandi imprese a Livorno, lo volle come socio nella sua casa di commercio.

Visto che gli affari prosperavano e la società cresceva, i due, era il 1610, decisero di impiantare una filiale a Marsiglia. La ditta, che sarebbe dovuta rimanere aperta per tre anni, venne intestata a Ottavio. Il contratto fissava in un terzo del totale gli utili spettanti al Sassetti; tutto il resto sarebbe andato al Quarantotti. La cose andarono benone e nei trentasei mesi pattuiti l’agenzia realizzò un volume d’affari stimabile in quasi ventimila scudi.

Nel 1614, alla morte del Quarantotti, Ottavio rientrò in Italia e venne nominato tutore deglii eredi del defunto socio. Nel 1622 sposò Elisabetta figlia del nobile Francesco di Vincenzo Primi, eletto priore a Pisa nel 1618.

L’attività di Ottavio garantì alla famiglia una florida condizione economica e quindi una rispettabile posizione all’interno del ceto dirigente cittadino. Quanto alla casa di commercio marsigliese, Ottavio ne tenne le redini fino alla morte, avvenuta il 10 marzo 1633. Con la sua scomparsa i Sassetti smisero di occuparsi di commercio. I tempi stavano infatti mutando rapidamente e con essi i costumi e il modo di vivere e di comportarsi della gente. La figura del singolo mercante, audace ed intraprendente, abituato da solo a gestire molteplici affari, aprire filiali e tenere contatti nelle principali piazze europee, era ormai avviata al declino, incapace di tenere il passo con la forza delle grandi compagnie europee. Anche psicologicamente la mercatura, esercitata fino ad allora alla stregua di una scienza o di un’arte, non appagava più come un tempo: praticata nel passato in modo esclusivo, o guasi, dalle classi agiate, cominciava ora ad essere snobbata, con quanto ciò comportava in termini di perdita di status sociale.

Il nipote di Ottavio, suo omonimo, compreso lo spirito dei tempi, si applicò in altre direzioni coltivando nuovi interessi. Nel 1690 istituì una commenda nel Sacro Militare Ordine di Santo Stefano e fu così il primo Sassetti a vestire l’abito di cavaliere, facoltà concessa “alli suoi discendenti maschi in infinito”. Un infinito che durò fino al 1859, data della fuga del granduca Leopoldo II, alias Canapone, e del conseguente scioglimento dell’Ordine.

Nel dispositivo del rescritto sovrano relativo alla commenda stefaniana si legge: “La famiglia de’ Sassetti discende da questa città di Firenze, dove ha più volte goduto la dignità del Priorato e di poi essendo passata in Pisa quivi ancora ha goduto e gode de’primi onori ed è imparentata con famiglie nobili e possiede nello Stato Pisano ragguardevoli sostanze con le quali il supplicante (Ottavio, nda) tratta con decoro, mantenendo carrozza e servitù al pari degli altri gentiluomini”.

Nel 1694, per un complicato giro di eredità, i Sassetti vennero in possesso di un palazzotto in via San Francesco e fu così che, lasciata Kinzica si trasferirono di là d’Arno, a Tramontana, nel cuore della città vecchia, dove da allora hanno stabile dimora.

Per Ottavio dovette rivelarsi un sacrificio non da poco abbandonare il campo di Mezzogiorno, lui che era appassionato sostenitore del Gioco del Ponte. Aveva anche preso parte all’edizione del 1672, combattuta in febbraio, guidando con i gradi di capitano, la squadra di Sant’Antonio. Per la cronaca la battaglia finì con la “pace” tra le opposte fazioni, vista l’impossibilità di sedare i tumulti scoppiati tra i partigiani delle due parti.

Anche allora c’erano comunque in giro per il mondo battaglie ben più cruente di quelle disputate sul ponte di Mezzo. In una guerra vera e propria, contro i Turchi, rimase coinvolto Ranieri Lorenzo Sassetti (1689-1763), figlio di Ottavio. Costui, da buon cavaliere di Santo Stefano, fu infatti tenuto a prestare servizio sulle galere per la guerra ormai cronica contro i Mori.

Si imbarcò il primo maggio 1717 a Livorno per una campagna navale nel Levante che avrebbe dovuto durare tre-quattro mesi. A levare gli ormeggi, in quel tiepido mattino di primavera, furono due galere, la “Santo Stefano” e la “San Francesco”. Il 9 giugno dettero fondo a Corfù, luogo di raduno di una flotta cristiana variamenre composta: navi veneziane, altre messe a disposizione da papa Clemente XI, altre ancora provenienti da Malta; due perfino portoghesi.

In tutto un’armata di una cinquantina di legni agli ordini del balì veneziano Bellafontana che si trovò così a comandare una sorta di copia, formato ridotto, dello schieramento già visto a Lepanto, la cui decantata vittoria non aveva poi sortito effetti così duraturi, se dopo oltre un secolo i Turchi scorrazzavano ancora minacciosi sui mari.

La flotta degli infedeli, forte di cinquanta vascelli tra tunisini, algerini, tripolini e barbareschi, giocò per così dire a nascondino con gli alleati per oltre un mese. Poi, il 19 luglio, quasi all’improvviso, si venne allo scontro, al largo del capo Matapàn. Le opposte flotte, disposte su due file, si affiancarono verso mezzogiorno cominciando a scambiarsi furiose bordate. La “Santo Stefano” venne subito attaccata dall’ammiraglia di Abrahim Pascià e da tre barbaresche che la fecero bersaglio di un impressionante volume di fuoco. L’abbordaggio vero e proprio venne evitato per un soffio grazie al pronto intervento di una galera portoghese e di due maltesi sopraggiunte a dar man forte. Lo scontro si protrasse oltre il tramonto. Le perdite: duecento di parte cristiana e “migliara”, dicono le carte, tra gli infedeli per un’operazione militare poi ricordata dalla storiografia veneziana come battaglia di Passarà. Deposte le armi, Ranieri Sassetti fece ritorno a casa sano e salvo il 26 agosto 1717.

Battaglia di Passarà

"Francesco di Russia", fedelissimo alla causa di Napoleone

Francesco di Russia

Ma Ranieri non fu l’unico, in casa Sassetti, a partecipare a imprese guerresche. Anche suo nipote Francesco (1783-1853), figlio di Luigi Pietro e Giulia Tonini del Furia, venne strappato alla tranquilla vita pisana e trascinato nel vortice della grande tempesta che Napoleone andava portando tra gli equilibri del vecchio continente. Francesco non fu tuttavia una vittima passiva degli eventi, e anzi vi partecipò con spirito avventuroso, animato dalla passione tutta giovanile per il rischio e l’azione.

Appena ventenne era già alfiere della guardia del corpo di Maria Luisa reggente del regno d’Etruria, con sede a Firenze. Il 20 settembre 1809, per decreto imperiale, venne nominato tenente del 28° Reggimento Chasseurs à cheval, Cacciatori a cavallo, di stanza a Orléans, le cui insegne erano ovviamente francesi, ma che era composto da truppe toscane. In quella città rimase di guarnigione fino a tutto ii 1811. Poi il Reggimento, assegnato alla terza armata francese, venne trasferito in Germania, a Erfurt, e quindi schierato a Koenigsberg sulle coste baltiche, al fianco sinistro della Grande Armée napoleonica, prossima ad iniziare, nel giugno del 1812, la leggendaria campagna di Russia.

Al Reggimento del Sassetti venne risparmiata l’avanzata su Mosca e soprattutto la catastrofica rititata. Venne comunque impegnato nel sostenere il contrattacco di svedesi e prussiani che dal dicembre 1872 all’autunno dell’anno successivo respinsero la terza armata dai confini della Lituania fino ad Amburgo, città che poi cinsero d’assedio. Qui Francesco rimase fino alla fine della guerra, nel 1814. Congedato nell’autunno di quell’anno arrivò a Pisa in novembre. Purtroppo non portò con se la splendida divisa di Cacciatore a cavallo, ma aveva comunque la sciabola ricurva da cavalleria, arricchita da una fibbia con l’aquila napoleonica. Un raro cimelio che la famiglia conserva ancora.

Di lì a poco il reduce sposò Smeralda, figlia del Conte Anton Vincenzo Sanminiatelli e così da soldataccio indurito da cinque anni trascorsi sui fronti di mezza Europa, si calò nei più comodi panni di gentiluomo benestante.

Nonostante i suoi trascorsi napoleonici, il granduca Ferdinando III volle onorarlo con il titolo di Ciambellano di Sua Altezza Imperiale e Reale, privilegio riservato solo all’alta aristocrazia toscana. Ma anche quando si recava a corte, a Firenze, Francesco non smise mai di appuntarsi in bella vista sulla giacca le sue decorazioni “rivoluzionarie”: la medaglia commemorativa della campagna di Russia e quella che Napoleone da Sant’Elena aveva concesso a tutti i suoi soldati, à ses compagnons de gloire.

All’interno dell’Ordine di Santo Stefano, dove era già stato accolto nel 1806, Francesco salì i gradini della gerarchia fino al titolo di Cavaliere di Gran Croce e ricoprì la carica di Gran Conservatore e Gran Tesoriere. Poiché fu l’ultimo a indossare gli abiti stefaniani a causa del sopravvenuto scioglimento dell’Ordine (1859), si può ben dire che i Sassetti terminarono in bellezza la loro secolare affiliazione a questa onorevole istituzione.

Ma Francesco, uomo molto attivo, ricoprì anche numerosi incarichi cittadini, in qualità di governatore della Pia Casa di Misericordia, deputato al Monte Pio e commissario degli Spedali riuniti di Santa Chira (così come ricorda una lapide posta nel cortile dell’Ospedale). Tra i suoi molteplici impegni trovò anche il tempo di restaurare la cappella Sassetti di Santa Trinita a Firenze, sulla quale la famiglia conserva gelosamente il patronato.

Soprannominato dai pronipoti “Francesco di Russia”, ha lasciato loro, oltre al ricordo di sé e alla sua sciabola di cavalleria, l’uniforme di Ciambellano e la cappa magna dell’Ordine di Santo Stefano, nonché un vasto epistolario. Da lui discendono in successione diretta: Luigi e Luisa; Anton Vincenzo e Giulia; Giulio Cesare e Cammilla; Filippo e Dianora; Ottavio, Nera e Lorenza; Filippo Pio ed Alessandra; in ultimo, Francesco e Benedetta.

Sul litorale, voglia di tenerezza

Giulio Sassetti

Converrà qui dire di Anton Vincenzo Sassetti (1869-1916) il quale, oltre a esercirare la professione di medico, avrebbe dovuto anche occuparsi della terra che sua moglie, Luisa Guidi (1873-1944), aveva ereditato a Luciana, sulle colline, dalla madre Teresa Rosselmini Gualandi. Ma Vincenzo non amava la campagna e meno che mai dover combattere con fattori e mezzadri. Era invece un patito del mare e con il passare degli anni si spostava sempre meno volentieri a Luciana e lo si vedeva sempre più spesso a Marina di Pisa.

Alla fine del 1908, d’accordo con la moglie, mise in atto un progetto che rimuginava da tempo: vendere senza rimorsi la tenuta in campagna e, con una parte del ricavato, acquistare una proprietà sul litorale. Detto fatto, per trentamila lire i Sassetti comperarono una villa in piazza Sardegna a Marina di Pisa, proprio di fronte al mare.

Dietro la casa c’erano anche un bel parco, verde di pitosfori, evonymus e tamerici, un orto con tante rose, ortensie e allori, nonché una dépendance detta lo chalet. Da quell’anno i Sassetti, ai primi tepori primaverili, presero ad “emigrare” dalla città a Marina e lì rimanevano per almeno cinque mesi, fino a quando il freddino umido dell’autunno non li costringeva a rientrare nei quartieri invernali di via San Francesco.

Il litorale, in quel punto così vicino alla foce dell’Arno, era in quegli anni d’inizio secolo, un’oasi incontaminata, dalla bellezza ineguagliabile, con il mare turchino, le bionde spiagge di rena finissima e la folta pineta intrisa di iodio e salmastro.

Quanto alla presenza umana, per anni era rimasta limitata alle capanne di qualche pescatore e alle cinque famiglie di finanzieri nel Fortino mediceo. Tanto è vero che nell’estate del 1872 l’allora Ufficio d’Arte del comune di Pisa approvò il “disegno geometrico” (il primo piano regolatore) per una costruenda “stazioncina dei bagni” a Boccadarno. Nasceva così, auspici un regolamento edilizio e una votazione del consiglio comunale, la futura Marina di Pisa.

L’idea dell’amministrazione era semplice: dividere quella porzione di paradiso in tante preselle edificabili, la cui assegnazione – cose d’altri tempi – si sarebbe fatta gratuitamente. Una proposta invero accattivante, ma che per parecchio tempo non riscosse il favore dei pisani. All’inizio soltanto un esiguo numero di ardimentosi pionieri fece propria questa opportunità edificando alcune palazzine sul mare. Quanto alle altre preselle, solo 40 su un totale di 140 trovarono in vent’anni un proprietario.

Il grande entusiasmo che aveva accompagnato la nascita del progetto veniva frenato soprattutto dalla precarietà delle comunicazioni con la costa. Il viaggio in carrozza sulla nuova strada “Argine dell’Arno” (l’odierno viale Gabriele D’Annunzio), inaugurata nel 1876, era abbastanza rapido, ma chi non possedeva un mezzo proprio, ed erano i più, doveva affidarsi all’impresa dei fratelli Cordon e pagare fino a sei lire per il biglietto.

Con il vaporino lungo il fiume bastavano invece pochi centesimi, ma la traversata era una vera e propria avventura, oltre a durare quasi due ore. Così, all’inizio degli anni Novanta, a Marina mancavano ancora il telegrafo, la scuola e perfino la chiesa, nonché una farmacia e il medico condotto. Per le urgenze bisognava infatti ricorrere al dottore che curava i linfatici dell’Ospizio marino di Boccadarno, realizzato nel 1887 con i fondi messi a disposizione dai fratelli Nissim, facoltosi industriali dei tessuti.

Con tali premesse si può ben comprendere come l’avvento del tramway a vapore, il mitico trammino, nel giugno del 1892, aprì davvero una nuova epoca. Appena cinquanta centesimi il costo del biglietto di andata e ritorno, due corse al mattino e due al pomeriggio, un paio di sferraglianti e pittoresche carrozze e a Marina, con la bella stagione, si riversavano migliaia di pisani.

Le preselle edificabili andarono a ruba: il cavalier Nardi Dei e il commendator Benedetto in un colpo solo se ne aggiudicarono 45. Le avrebbero poi rivendute a peso d’oro ad acquirenti d’alta classe, quali i fratelli Peratoner, il banchiere Frilli e il milionario svizzero Oscar Tobtler.

Uno dopo l’altro arrivarono in paese i servizi essenziali e tra i ginepri arsicci e le paglie marine del lido vennero aperti Caffè e locali che subito diventarono alla moda. Per non dire dei ristorantini tutta genuinità e aria di mare o degli stabilimenti balneari che attirarono un numero sempre crescente di pisani benestanti intenzionati a metter su casa a Marina. Fra questi Vincenzo Sassetti, anch’egli colpito dalla tenerezza e dalle suggestioni del luogo.

Così era Marina di Pisa, con quella sua atmosfera e quell’insieme di suggestioni che incantarono aristocratici e poeti (il Vate D’Annunzio in testa), possidenti e ricchi borghesi che da tutta la Toscana accorrevano al mare di Pisa. Si trattò comunque di un sogno, tanto intenso quanto fugace. Negli anni del fascismo, il regime, pur apprezzando Marina, indirizzerà il suo sguardo qualche chilometro più avanti, promuovendo la nascita e lo sviluppo di Tirrenia, il cui primo disegno e piano urbanistico venne affidato a un architetto della levatura di Federigo Severini, progettista dalle soluzioni innovative e artista di talento che firmò le più importanti opere pubbliche realizzate a Pisa in quel periodo.

Ma negli anni ruggenti, quando ancora l’originaria “stazioncina dei bagni” a Boccadarno era in auge, un altro Sassetti rimase stregato dalla fiaba di Marina. Si tratta di Giulio Cesare (1897-1952), figlio di Anton Vincenzo. Fin da ragazzo si distinse fra tutti i suoi coetanei come il più veloce nuotatore in stile libero. Era sempre lui a vincere nelle tante gare che ogni estate venivano organizzate alla foce dell’Arno.

Altra sua spericolata passione era il libeccio, soprattutto quando ingrossava le onde facendole minacciose e temibili sono a guardarle . Era allora che Giulio, insieme a pochi altri, prendeva il mare in patino cimentandosi in spettacolari scivolate sulla cima dei flutti. La forza e la violenza dell’acqua erano tali che da un momento all’altro avrebbero potuto schiantare il legno su cui Giulio e i suoi si esibivano. Ma il bello era proprio questo, visto che tale temerarietà era stimolata dalla presenza delle ragazze che dalla riva seguivano con malcelata apprensione le evoluzioni dei loro amici.

Stralci di vita vissuta. Felici e intense stagioni. Di lì a poco, con lo scoppio della Grande Guerra, l’incantesimo si sarebbe dissolto. Giulio venne chiamato alle armi nel 1916, a soli diciannove anni e, come tanti della sua generazione, diventerà un “ragazzo del Piave”. Dopo il corso ufficiali a Torino, alla Scuola d’artiglieria, venne spedito al fronte. Tenentino inesperto e appena ventenne arrivò a Gorizia poche ore prima dello sfondamento austriaco a Caporetto. Dopo una settimana era un uomo, già provato dalla convivenza con la morte e dallo sforzo sovrumano di portare in salvo, in una durissima ritirata di oltre 150 chilometri, gli uomini e i cannoni della batteria che gli era stata affidata. Poi i lunghi mesi nelle trincee del Montello, la battaglia del Solstizia, il Piave…

Una gita in pineta

Ma le lunghe villeggiature a Marina di Pisa non gravitavano solo intorno al mare. Fonte di altri svaghi, di aria balsamica e di salutari passeggiate era la fitta pineta che si apriva alle spalle dell’abitato. Era talmente intricata e selvaggia che occorreva praticarla con saggia circospezione, altrimenti si potevano correre avventure sul tipo di quella descritta da Luisa Sassetti, nata Guidi, moglie di Anton Vincenzo, in una lettera del 1910 a sua cugina Pia Bertolli, baronessa Carranza (cugina in quanto entrambe erano figlie di due sorelle Rosselmini Gualandi, Elisa e Teresa).

“Pia Carissima, è già diverso tempo che non ho tue nuove ma spero che tu stia trascorrendo a Castellonchio un periodo tranquillo di riposo con tuo marito e i bimbi. Noi qui ci godiamo quest’ultimo scorcio d’estate molto serenamente, i bimbi (Giulio Cesare e Cammilla, nda) stanno bene e sono contenti. Facciamo la solita vita: mare tutte le mattine e passeggiate in pineta specialmente quando soffia il libeccio che, come tu sai, m’innervosisce parecchio.

L’altro giorno in pineta abbiamo avuto una bella avventura. Siamo partiti da casa nel primo pomeriggio: io con i bimbi e la donna, mia sorella Alessandra, tutta la tribù dei Carnelli con il signor Alberico in testa. Eravamo una diecina in tutto. Meta della gita: l’Arnino. Siamo arrivati fino alle capanne dei pastori e qui ci siamo intrattenuti un po’ di tempo perché i bimbi si divertivano a guardare gli agnellini e, noi grandi, abbiamo assistito alla preparazione della ricotta. Ne abbiamo assaggiata un po’ ma, per la verità, appena fatta era leggermente stucchevole. Poi siamo tornati verso casa.

Cara Pia, per un momento ho avuto paura perché temevo che la notte ci sorprendesse in quella situazione. Dopo tanto sguazzare, ci siamo rifugiati su una specie d’isolotto. Uno spettacolo, con le gonne strappate e motose e tutte inzuppate d’acqua. Poi dopo tanta angoscia abbiamo intravisto lontano un chiaro e ci siamo diretti da quella parte e cammina, cammina siamo arrivati, non ci crederai, alla casina della Finanza a Mezza Piaggia. Da lì poi, dopo aver tirato il fiato, siamo tornati verso Marina per il solito stradone. Siamo arrivati a casa a buio in condizioni “lamentevoli”.

Una casa a prova di terremoto e di bombe

Già si è detto di come i Sassetti, giunti a Pisa verso la metà del Cinquecento, presero in un primo tempo dimora nel quartiere di Kinzica, dalla parte di Mezzogiorno.

Ma dal 1694 essi hanno eletto a propria residenza un elegante palazzotto – porte laccate, soffitti a cassettoni e un grande orto – in via San Francesco, accanto all’odierno cinema Odeon. Una casa bella e ben fatta, solida e ben costruita, sopravvissuta agli acciacchi del tempo e ai suoi perniciosi dispetti: le guerre e i terremoti.

In almeno due occasioni, lontane nel tempo ma non per questo di minor gravità, gli inquilini del palazzo dovettero con tutta probabilità temere il peggio. La prima volta fu a causa delle violente scosse di terremoto registrate a Pisa alla vigilia del ferragosto del 1846. Un fatto che in città e nel contado portò crolli e rovine. Morirono anche delle persone e in generale lo spavento fu grande, accresciuto dal ripetersi dei movimenti tellurici a distanza di parecchie ore l’uno dall’altro.

Una testimonianza per così dire “in diretta” di quei momenti di angoscia e apprensione è offerta da Francesco Sassetti (il seguace di Napoleone), che all’indomani del grave evento scrisse a sua figlia Luisa, la quale si trovava a Firenze, descrivendo l’accaduto con accorate parole.

“Noi due stiamo, grazie a Dio, benissimo di salute malgrado la disgrazia del terremoto che ci spaventò non poco ieri: in principio per sussulto e poi per moto ondulatorio molto prolungato e forte. Io ero al cancello in terreno e nel momento credei che fossero gl’imbianchini che camminavano al secondo piano che tu sai bene che svetta (oscilla, nda) ma quando sentii anche nella mia persona l’ondulazione e poi il rombo che pareva che tutta la casa dovesse cadere capii di cosa si trattava.

Salito trovai Smeralda (la moglie di Francesco Sassetti, nata Sanminiatelli, nda) con Petronilla (una domestica, nda) che uscivano abbracciate e piangenti dall’Alcova grande col mio Crocifissino e con S. Antonio alla mano. Io per far loro coraggio mi mostrai ilare e quasi ridente per cui tua madre esclamò com’io ridessi, ma fatto sta che le feci coraggio e dissipai quel grande orgasmo in cui erano entrambe. Dobbiamo ringraziare il Signore di vero cuore di averci sottratti a questo grave flagello che a Volterra sono morti 14 detenuti per il crollo della stanza dove si trovavano. Gravi danni anche,a Lorenzana dove sono morti sotto le rovine il fattore del Serughi e quello di Calci del Rosselmini che vi era andato per avervi una sorella malata e mentre erano a tavola sono stati schiacciati. Stamani sono venuti a Santa Chiara da quei luoghi 11 feriti e uno è morto per la strada. Durante il giorno abbiamo avuto altre scosse sebbene più piccole: una alle cinque p.m. e una alle dieci p.m. A Smeralda parve sentirne una anche dopo la mezzanotte che io dormiva a malgrado che altre due volte mi avesse svegliato e che avrebbe voluto che io stessi desto, cosa impossibile perché io moriva dal sonno. In casa abbiamo trovato solo un grosso spacco nel muro della finestra della cucina, del secondo piano, molti calcinacci e tegoli dal tetto”.

La lettera si chiude descrivendo un altro disastroso fatto: che nella vicina chiesa di San Michele in Borgo era rovinata l’intera volta e che si doveva solo ad un miracoloso intervento della Provvidenza divina se le uniche tre persone presenti nel tempio nell’istante fatale si erano salvate. Quanto al Santissimo Sacramento, non c’era da temere: era stato tratto in salvo dal solerte priore Camerino che lo aveva portato in San Paolo all’Orto. L’unico cruccio è che quella sera non avrebbe avuto luogo “il solito trattenimento dall’Arcivescovo; attesi sì gran disastri, Monsignor e aveva contromandati tutti gli inviti”.

Ma paura ancora più grande fu quella provata nella primavera del 1944, quando la città viveva sotto l’incubo dei bombardamenti degli alleati. Costoro, dall’alto, miravano ai ponti sul fiume, ma non sempre il colpo era preciso. Fu così che due bombe presero la direzione di via San Francesco: una centrò in pieno villa Fantoni (sulle cui macerie venne poi edificato il cinema Odeon), ovvero la proprietà contigua a casa Sassetti; l’altro ordigno sventrò un edificio sul lato opposto della strada. Lo spostamento d’aria fu tale da riuscire a scoperchiare palazzo Sassetti, facendone letteralmente volar via il tetto. Un bello sconquasso, non c’è che dire, ma anche quella volta la casa restò in piedi.